Questa mattina 22 settembre 2024 si è svolto il cerimoniale in ricordo dell’81esimo anniversario dell’affondamento del sommergibile Velella insieme con l’associazione “Il Faro di Licosa”, il gruppo A.N.M.I di Santa Maria di Castellabate e la Società Mutuo Soccorso Libertà e Lavoro 1884.
La cerimonia é iniziata con la deposizione di una corona al monumento dedicato al Carabiniere M.A.V.M Antonio Mondelli, poi un’altra corona é stata deposta al monumento ai caduti del mare a punta dell’inferno.
Successivamente la cerimonia é proseguita Sul molo di Licosa dove è stata scoperta la nuova lapide dedicata ai giovani caduti del Sommergibile Velella. In questa tragedia il 7 settembre del 1943, 52 marinai hanno perso la vita ad armistizio firmato.
Un simbolo, realizzato con il contributo della Società Mutuo Soccorso Libertà e Lavoro 1884 di Castellabate, per non dimenticare mai ed avere una testimonianza per le future generazioni.
Galleria fotografica della manifestazione teatrale a Punta Licosa e della commemorazione dei Caduti del sommergibile Velella a Santa Maria di Castellabate.
La costruzione della nave fu commissionata al cantiere navale fiumano “Danubius” in virtù di un compromesso con la classe politica ungherese che pretese la costruzione di una corazzata a Fiume, che all’epoca apparteneva alla parte ungherese della duplice monarchia. La costruzione della corazzata iniziò nel 1912 e fu ultimata dopo due anni.
Successivamente l’allestimento fu ultimato con la dotazione degli armamenti necessari e, allo scoppio della prima guerra mondiale, fu trasferita nell’arsenale militare di Pola per essere completata.
La Santo Stefano entrò in servizio il 17 novembre 1915, con un ritardo sul programma originario. Il nome Szent István le fu dato in onore del re fondatore dello Stato ungherese, e gli venne attribuito solo dopo l’entrata in servizio. (altro…)
Ancora una volta il ritrovamento fortuito di un’anfora ha rivelato l’esistenza di un relitto di un’antica nave da carico greca o romana. Il fatto si è verificato al largo di Punta Licosa, sull’estremità meridionale del golfo di Salerno. Qui, dall’isolotto che della stessa punta porta il nome, si estende per svariati chilometri verso il largo una specie di promontorio sommerso che funge da vero e proprio spartiacque. Lungo e al di sopra di esso, le correnti dominanti stagionali, tipiche di quest’area del Tirreno, assumono velocità notevoli, rendendo incerti, e a volte pericolosi, sia l’immersione che l’ancoraggio e la navigazione, specie se non affrontati con mezzi adeguati alle condizioni meteo del momento.
Qui circa tre anni fa, un pescatore del luogo, salpando le reti da pesca, si ritrovò agganciato casualmente un’anfora. Era quasi riuscito a tirarla in barca quando l’anfora finì sul fondo. Il pescatore, aveva fatto in tempo a vedere che l’anfora era intera. La sua presenza in una zona così distante dalla costa forse indicava che, probabilmente sul fondo c’era qualcosa di più di un’anfora. Tornato a terra ne parlò a due suoi amici subacquei, Pino Di Luccia e Gabriel Piccirilli, soci del Cesub, un vecchio circolo di attività subacquee che ha la base a Santa Maria di Castellabate e che da oltre vent’anni opera appunto nella zona di Punta Licosa con vari interessi, non ultimo quello archeologico.
Numerosi reperti, ritrovati in zona infatti sono stati recuperati negli anni passati sui fondi antistanti dai subacquei soci del Cesub; oggi possono essere ammirati al museo di Paestum, al Castello di Castellabate e all’antiquarium.
Su uno dei ceppi ritrovati c’è in rilievo una scritta che appare ripetuta sui due bracci del reperto: “CAQUILLIPROCULI”. Che sia il genitivo possessivo del nome del comandante dell’antica flotta militare, certo Caius Aquillius Proculus, che quasi duemila anni fa decise di ancorare le sue navi in rada davanti all’antica Leucosia? È quanto pensano alcuni studiosi, riferendo che nel 90 d.C. ci fu appunto un console romano con tale nome.
Il Cesub ne denunciò il ritrovamento alle autorità competenti. Nell’occasione si è proposto a collaborare alle ricerche con i suoi sub, impegnandosi nel frattempo a un’opera di custodia del relitto.
Il relitto più che vederlo lo si intuisce. Sparse su un fondo di posidonie, ci sono anfore, in gran parte rotte. Ma sui bordi di queste aree sabbiose scoperte si vedono chiaramente le anfore infilarsi integre sotto l’alto letto di posidonie, formatosi successivamente al naufragio. Tra le posidonie, hanno anche trovato uno dei ceppi in piombo delle ancore. Le anfore trovate sul fondale, sia rotte che integre, sono risultate vuote, probabilmente trasportavano olio o vino.
FONTE e articolo completo: Guido Picchetti
Il docufilm sarà incentrato sul lavoro di Andrea Bada, “Indiana Jones” dei fondali, e del suo team che dalla Liguria parte per effettuare immersioni in tutto il Mediterraneo, ritrovando decine di importanti relitti.
Un documentario su Andrea Bada e il suo team di esploratori subacquei che – partendo dalla Liguria – scopre meraviglie sommerse in tutta Italia: è la nuova produzione di Millstream Films and Media e Lilium Distribution, che hanno annunciato di aver ottenuto un finanziamento dalla Regione, tramite Filse e Genoa Liguria Film Commission, per girare un docufilm di 90 minuti sulla vita avventurosa dell'”Indiana Jones” dei fondali.
Andrea Bada, sub di origini torinesi che vive in Liguria e gestisce un diving center ad Arenzano, è famoso per le sue esplorazioni dei fondali del Mediterraneo, dove ritrova decine di relitti di tutti i tipi: tante navi militari ma anche aerei, ordigni, sezioni perdute della superpetroliera Haven e antiche navi romane risalenti a prima della nascita di Cristo. Tutti reperti dimenticati, ormai residenze di pesci e crostacei, che nascondono pagine di passato abilmente svelate dal team di Bada che si muove seguendo le indicazioni della storia e dei pescatori locali, con attrezzature tecniche di prima qualità sia per immergersi sia per girare filmati e fotografare i segreti degli abissi.
Il docufilm arriverà nel 2023 su Sky: “Racconteremo le parti più importanti del nostro lavoro e della mia storia – racconta Bada a GenovaToday – ci sono belle prospettive e siamo tutti entusiasti. Ho già girato praticamente tutte le scene sott’acqua quest’estate ma prossimamente ci saranno altre aggiunte perché non mi sono fermato e ho fatto altri ritrovamenti importanti”.
Tutte immersioni molto impegnative che richiedono anni di esperienza, mesi per scegliere le condizioni meteomarine più favorevoli e poi – fatta l’immersione – ore e ore di decompressione per risalire in superficie.
Tra i relitti esplorati anche alcuni affondati nel Cilento, tra cui la nave Liberty “William W. Gerhard” e il Sommergibile Velella.
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Milestream Films, che ha condiviso la notizia sui social, ha anche aggiunto di voler continuare il lavoro sul territorio di Genova esplorando le fantastiche location della Liguria, molto adatte a film e documentari.
Era il 1962, quando la USS Indipendence, Portaerei Statunitense in navigazione nel mediterraneo si rese nota per un gesto che fa parte della storia. Il gesto in questione fu fatto nei confronti dell’Amerigo Vespucci, il più conosciuto veliero scuola appartenente alla Marina Militare Italiana. Varata nel 1931, è motivo di orgoglio per tutta la Marina Militare Italiana.
Come appena accennato, nel 1962, le due navi erano in navigazione nel Mar Mediterraneo, e la portaerei americana incrociandola iniziò a lampeggiare con il segnale luminoso, chiedendo:
Dall’Amerigo Vespucci risposero:
A questa gli statunitensi risposero con una frase ormai consegnata alla storia:
L’omaggio degli statunitensi non è l’unico. Tanti sono i tributi nei confronti del veliero Italiano. Quando in mare anche grandi navi incontrano il Vespucci, questi fermano le macchine rinunciando alla precedenza, pur di omaggiare la nave scuola suonando tre colpi di sirena in segno di saluto.
Sotto, la fotografia originale dell’incrocio fra le due navi:
Il motto dell’Amerigo Vespucci è:
Non chi comincia ma quel che persevera
I motti precedenti “Per la patria e per il Re” e “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”.
L’Amerigo Vespucci alla Sail Amsterdam del 2005:
Il primo settembre 2022, a bordo del Vespucci, è stata aggiornata una pagina tra le più iconiche della storia del veliero.
A 60 anni dall’incontro con la portaerei americana, la USS George H.W. Bush, ha incrociato sulla sua rotta, Nave Vespucci in transito nel basso Adriatico. Il comandante, Capitano di Vascello David-Tavis Pollard, in ricordo dello storico evento avvenuto con la USS Independence, ha chiesto via radio “siete il veliero Amerigo Vespucci della Marina Militare Italiana?”
Alla risposta affermativa del Capitano di Vascello Massimiliano Siragusa, gli americani hanno risposto: “after 60 years you’re still the most beautiful ship in the world” (dopo 60 anni siete ancora la nave più bella del mondo).
Si è trattato di una incredibile opportunità di rinforzare il legame tra la Marina Militare e la US Navy, nel solco della tradizione guardando al nuovo che avanza, iconicamente rappresentato dagli allievi del neonato corso Aghenor imbarcati.
Agosto 2022 – Nuova spedizione subacquea sul relitto del Sommergibile Velella. La spedizione è stata eseguita dalla Techdive Explorer Team di Andrea Bada, subacqueo tecnico e cacciatore di relitti.
Le immagini del relitto illuminate dalle torce nel blu intenso tolgono il fiato, 140 sono i metri d’acqua che dividono i subacquei dalla superficie del mare.
Le reti che abbracciano il relitto, chissà ormai da quanti anni, ne restituiscono un’immagine quasi spettrale.
Il Team ha eseguito due immersioni di circa 25 minuti di fondo, dove hanno filmato ogni angolo del sommergibile. Inizialmente, anche dalle varie testimonianze dei pescatori, si credeva che il relitto fosse spezzato in più parti e distanti tra loro.
Dai filmati realizzati da Andrea Bada e dai suoi collaboratori, si può notare come lo specchio di poppa sia staccato dal resto del relitto e la parte più grande si sia conficcata con la prua nel fondo, e poi si sia appoggiato alla poppa.
Dalle immagini si possono riconoscere perfettamente i due periscopi e l’antenna del giroscopio. Sul lato della torretta visibile la scaletta per accedere alla falsa torre dall’esterno.
Particolare dell’interno del relitto dove il sommergibile si è spezzato dopo l’impatto col siluro, e i timoni d’immersione e i boccaporti sul ponte esterno.
Un giorno, di buon mattino, le squadre di operai di Marinarsen/Augusta, s’apprestano a salire a bordo. Sul molo si notano diversi carrelli contenenti vario materiale che, a occhio, presumere servirà per diverse parti delle varie apparecchiature di bordo. Questo via vai degli operai operanti, dura circa una settimana. Sembrava essere tornati indietro al tempo dei cantieri Tosi-Taranto.
Segreto militare? Ma!!!! Un bel giorno, riuniti in assemblea, il Comandante in seconda, ci comunica: fra qualche giorno toglieremo gli ormeggi per una lunga esercitazione sotto il comando della Nato, con partecipazione di altri sommergibili, battelli di superficie ed aerei. Nessuna data precisa, solo di salutare le famiglie e preavvisarle di una assenza un po’ prolungata.
Il giorno della partenza, sul molo, si notava un’inconsueta moltitudine di persone. Si potevano osservare, soprattutto, donne e bambini, con le lacrime agli occhi, come se partissimo per la guerra. Nessun parente per me che salutava. Mi sentivo strano, l’incognita m’innervosiva. Il mio pensiero volava lontano, e nel pensiero mio vedevo mammarella, (nonna in dialetto cilentano), mamma e la piccola sorellina Tullia piangendo, nella stazione di Civitavecchia, quando partii per la prima volta per servire la “Patria“.
Il battello molla gli ormeggi e lentamente lascia la banchina. La folla si fa sempre più piccola, poi scompare del tutto. Siamo nell’aperto mare, bonaccia favorevole per i battelli si superficie, “i cacciatori”, poveri noi, “Lepre”.
L’orizzonte era libero ed il Comandante ordina l’immersione. In questa operazione non si trattava di simulare il lancio di siluri contro le unità, ma di forzare un cosiddetto blocco navale che ci avrebbe impedito, cacciandoci, di arrivare in prossimità delle ostruzioni del porto di Malta.
Una volta individuati “colpiti” si doveva emergere. Le navi ricevevano informazioni anche dagli aerei Antisom, che dall’alto erano facilitati a vedere la scia e sagoma del sommergibile col mare calmo come una tavola. Di giorno si navigava ad una certa profondità di sicurezza e di notte a quota Snorkel, presa d’aria del sommergibile, per ricaricare le batterie.
Era una lotta impari. Il C/te invertiva la rotta in continuazione allontanandosi dall’isola, anche per non finire come un grosso pesce nelle reti dei pescatori. Nonostante tante accortezze, una notte, a quota Snorkel, alle prime luci dell’alba, veniamo beccati da un aereo antisom… emersione.
Eravamo delusi, sconfitti da un nemico troppo insidioso e difficile da controllare. Fortunatamente l’operazione non era del tutto finita, avevamo perso una battaglia, ma la guerra continuava. In cuor nostro speravamo in una rivincita, non era facile, per noi sommergibilisti, inghiottire certe sconfitte.
Il comando, Nato, concede una giornata di libertà. Il personale libero viene in coperta, si scherza per attenuare una certe delusione, il pranzo abbondante, l’appetito viene agevolato dall’aria pulita che respiriamo in coperta. Procediamo ad una certa pulizia interna del battello mentre i motori ronfano per la carica delle batterie. Finalmente ci viene comunicato che ci sarà una seconda esercitazione con otto ore di libertà di manovra rispetto al punto dell’immersione, naturalmente valida anche per gli altri battelli.
Verso le ore 20.00 c’immergiamo. Durante lo spostamento in superficie il Comandantee aveva fatto il punto nave sol radar e, con una certa precisione, sapevamo l’esatta distanza dal porto di Malta. D’Annunzio scrive:
Memento audere Semper – la fortuna aiuta i forti
Eravamo ancora incazzati dalla precedente sconfitta subita e caparbiamente intenzionati a non fallire una seconda volta. Dai primi ordine del Comandante appare chiaro che il Suo pensiero coincide con quello dell’equipaggio. Ordini precisi: macchine al minimo, navigazione silenziosa, illuminazione ridotta, lentamente a quota di profondità. Mantenere il più assoluto silenzio nell’eseguire ogni manovra strumentale.
Con una semplice espressione: assetto di guerra. Dopo due giorni di navigazione in immersione, il caldo si fa sentire, molti di noi sono in canottiere, permesso speciale, l’esalazione delle batterie fanno l’aria irrespirabile. Non si sentono giri di eliche in superficie, solo qualche rumore in allontanamento. Le nostre varie manovre ci hanno dato la possibilità di disimpegnarsi.
In parale semplici: eravamo sfuggiti agli acerrimi cacciatori nemici, navi di superficie ed aerei. La notizia si diffonde a bordo e viene accolta con un grido di gioia. Un grido di gioia contenuto. Guardia in tenuta da lavoro Siamo a velocità lenta, dal controllo della Augusta 1962 barometria, ci rendiamo conto che abbiamo una leggera deriva, non rilevante, si manovra per allontanarci dalla costa per guadagnare acque profonde, rotta per il porto di Malta. Alle prime luci del mattino emergiamo.
uno spettacolo si presenta ai nostri occhi….. l’isola di Malta è nostra.
A bassa velocità attraversiamo l’ostruzione, alcuni battelli sono già in rada, ci viene comunicato il numero del posto di ormeggio in banchina. Terminata l’operazione d’attracco, il nostro Comandante con l’ufficiale di rotta, si dirigono verso l’ammiragliato. Erano stati convocati dal comando inglese. Al loro ritorno il C/te ci comunica: ore 12.00, assemblea generale sulla banchina. All’ora stabilita l’equipaggio al completo, è schierato sul posto assegnato.
Arriva l’ammiraglio inglese, che, nella propria lingua, pronuncia il Suo discorso. Il nome del nostro battello, Smg. Calvi, viene più volte menzionato con lo sguardo spesso rivolto verso di noi. Siamo il primo equipaggio a scalare, alla nostra sinistra gli altri equipaggi sommergibilisti. Prende la parola il nostro comandante che, dopo aver ringraziato l’ammiraglio per le sue parole di elogio a noi riservato, prosegue Taranto 1961 in lingua italiana: il Calvi è stato l’unico sommergibile a non essere stato scoperto dopo la ripartenza delle operazione.
Avremmo voluto gridare per la gioia, ma….. il nostro grido rimane contenuto, ma…. sulle nostre labbra si poteva osservare uno smagliante sorriso di felicità…. Soddisfazione e, diciamolo pure.
Avevamo perso una battaglia ma la guerra, si la guerra, nel vero senso della parola, l’avevamo vinta con tutti gli onori.
Questo episodio frammento, tratto dal mio libro ricordi ” Ed il tempo volò “ lo dedico all’equipaggio del sommergibile Pietro Calvi 503, ed a tutti i sommergibilisti, in particolare a quelli che ci hanno lasciato per l’ultima missione. In special modo al comandante Tenente di Vascello Giuseppe Arena “Ammiraglio di Squadra“ sotto il Suo comando, ho avuto l’onore ed il piacere di servire la Patria.
“Uomo di rara virtù“
Un grazie di cuore al collega Monteforte per la Sua partecipazione del contenuto di questo racconto. Un amico di ieri, anche dopo 60 anni, un amico che fa la differenza. Un marinaio d’Italia? Di più, un sommergibilista.
Ugo Elia Cavaliere della Repubblica
Maestro del lavoro
Croce al merito della Germania
Festa delle Forze Armate organizzata dal Comune di Castellabate. La cerimonia si è svolta nella piazzetta dedicata ai Cavalieri di Vittorio Veneto, con una deposizione di una corona vicino alla lapide marmorea. Successivamente il corteo si è spostato attraverso le vie del paese, fino alla piazza dove un’altra corona è stata posta alla base del monumento ai Caduti di tutte le Guerre. La manifestazione poi si è spostata a Castellabate capoluogo, dove vi è una lapide in ricordo dei figli di Castellabate morti nella Prima e Seconda Guerra Mondiale. Un’altra corona è stata posta al molo dedicato ai marinai del Sommergibile Velella, nella frazione di San Marco di Castellabate.
Il giorno 24 ottobre 2021, presso la sede sociale dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia di Santa Maria di Castellabate, ci sarà una cerimonia di intitolazione della sede ai marinai del Velella.
Dopo diversi anni dalla fondazione, il gruppo ha finalmente deciso di intitolare la propria sede del gruppo, scegliendo proprio quei ragazzi che si sono immolati per la Patria e che dal 1943 giacciono sul fondo del nostro mare.
Il sommergibile, durante la sua missione di perlustrazione del basso Tirreno, davanti alle coste di Castellabate, fu raggiunto dai siluri del sommergibile Shakespeare in missione con il compito di radio faro all’imminente sbarco Alleato degli Anglo-Americani, danneggiato, colò a picco con tutto il suo equipaggio.
Spesso siamo stati abituati a leggere nei libri oppure vederle al cinema, storie di naufraghi che affidano la loro vita ad un messaggio in bottiglia. Questa però, non è una storia hollywoodiana tipo Cast away con Tom Hanks, ne tantomeno un racconto di avventura.
Questa è la storia di Francesco Chirico, classe 1919, nato a Futani piccolo centro del Cilento. Chiamato alle armi nella Regia Marina, è stato imbarcato sulla Regia Nave Fiume.
Durante la notte del 29 marzo del 1941 la flotta della Regia Marina subiva una sconfitta a largo di Capo Matapan. Tra le navi affondate, la R.N. Fiume con a bordo il marinaio Chirico.
Insieme al suo Comandante, non aveva abbandonato al nave, raccolse le ultime forze per scrivere un messaggio:
Scritto il messaggio su un pezzo di carta, inserito in una bottiglia, lo lanciò in acqua, affidando ai flutti le sue ultime parole.
Su una spiaggia un uomo sta passeggiando in una mattina estiva. Viene attirato da una bottiglia sulla battigia. Guardandola bene, si accorge che al suo interno c’è qualcosa. Al suo interno trova un pezzo di tela con su scritto un messaggio:
«R. Nave Fiume – Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti 1, Salerno. Grazie signori – Italia!»
Il marinaio Francesco Chirico di appena 22 anni, era stato dichiarato disperso, come risulta dagli elenchi dei Caduti e Dispersi della Marina Militare, nella battaglia di Capo Matapan, a sud della Grecia, insieme alla nave Fiume, con la perdita di 813 dei suoi 1.083 marinai.
Il messaggio poi, venne recapitato alla madre del marinaio in una frazione di Futani, paese poco distante da Capo Palinuro.
Alla memoria del Marò Chirico Francesco è decretata una medaglia di bronzo al valor militare: «…prima di scomparire in mare con l’unità , confermava il suo alto spirito militare affidando ai flutti un messaggio di fede e di amor patrio che, dopo undici anni, veniva rinvenuto in costa italiana ».
Non si poteva trovare titolo più appropriato nel raccogliere le memorie e testimonianze di chi ha ricevuto dal
destino l’opportunità di raccontare quello che per tanti altri si trattò di un evento funesto.
Il racconto del giovane marinaio Beniamino Veneroso nato a Pisciotta (SA), si interseca con quello meno fortunato del giovane Francesco Chirico, anch’egli originario del Cilento (Futani), entrambi imbarcati sul Regio Incrociatore Fiume, la cui sorte rimbalzò agli onori della cronaca per il ritrovamento sulle coste della Sardegna dieci anni dopo essersi inabissato insieme all’unità, di una bottiglia contenente il messaggio indirizzato alla madre che il Chirico lanciò in mare prima di morire.
Commovente, per non dire straziante, è Il racconto che il Veneroso descrive, con enorme lucidità, gli attimi vissuti
prima e dopo la cruenta battaglia navale di Matapan, in cui la flotta italiana subì una pesante sconfitta e la perdita di uomini e mezzi, soprattutto perché la flotta inglese iniziavano a sperimentare il radar. Dopo giorni e notti trascorsi
in mezzo al mare, afflitti dalle disperate grida di coloro che, vuoi perché feriti, disidratati, vuoi perché sopraffatti
dalla stanchezza, venivano aggrediti dagli squali, il salvataggio dei superstiti avvenne ad opera dell’unità
Ospedaliera Gradisca.
Ancora una volta il ricordo riporta in vita momenti di altissima dedizione ai valori di patriottismo di cui i nostri
marinai si sono sempre distinti.
Giannicola Guariglia – Presidente del gruppo ANMI di Santa Maria di Castellabate
Il Capo Matapan, all’estremo Sud della penisola peloponnesiaca, è tristemente noto perché nel suo mare si sono
svolte cruentissime battaglie navali. Famosa è quella del 19 luglio 1717 tra veneziani e turchi, risoltasi in una
sonora sconfitta dei turchi, costretti a ritirarsi a Costantinopoli.
Ma la battaglia per noi più vicina e tragica è quella svoltasi il 28 e 29 marzo 1941 fra la flotta italiana e quella
inglese. Lo scontro segna un gravissimo insuccesso per la flotta italiana che, anche a seguito dell’incursione al porto di Taranto del novembre 1940 e del bombardamento di Genova del febbraio 1941, sarà costretta a lasciare alla Marina inglese il controllo e l’iniziativa in tutto il Mediterraneo.
La squadra italiana, guidata dalla corazzata Vittorio Veneto, al comando dell’Ammiraglio Jachino, si porta, il
giorno 28, all’altezza di Creta, con l’intenzione di intercettare i convogli inglesi, in rotta dall’Africa alla Grecia. La
squadra inglese, al comando dell’Ammiraglio Cunningham, sostenuta dall’aviazione, affronta quella italiana, che ne
esce battuta per l’insoddisfacente coordinamento aeronavale, oltre che per la mancanza del radar, che aveva
consentito agli inglesi di avvistare con largo anticipo gli italiani.
Nella notte del 29 la Vittorio Veneto e poi l’incrociatore Pola vengono immobilizzati. Altri incrociatori, tra i quali Fiume e Zara, e cacciatorpediniere, tra i quali Alfieri e Carducci, vengono colpiti e affondano in pochissimi minuti.
Pochi sono i superstiti, tra cui il pisciottano Beniamino Veneroso, che si trova a bordo del Fiume, e Luigi Saddi, nocchiero sullo stesso incrociatore, oggi vivente a Pisciotta.
Beniamino Veneroso, nato a Pisciotta nel 1919, a dicembre del 1939 fu a Taranto imbarcato sull’incrociatore Fiume. Prese parte, il 9 luglio 1940, alla battaglia di Punta Stilo. Era con la sua nave nella rada di Taranto quando, l’1 novembre, ci fu un attacco di idrosiluranti inglesi: furono sparati tantissimi colpi che sembravano fuochi artificiali. Ancora, il 27 novembre, combatté a Capo Teulada una battaglia che durò oltre un’ora e durante la quale furono sparate tutte le munizioni della Santa Barbara. L’esperienza più terribile fu però la battaglia di Gaudio e Matapan del 28 marzo 1941.
Il 26 Marzo gli incrociatori Fiume (dove io mi trovavo imbarcato), Pota e Zara e i cacciatorpediniere Alfieri, Carducci, Oriani e Gioberti lasciarono il porto di Taranto per scortare un convoglio che era diretto in Africa; più tardi dovevano raggiungerci altri incrociatori tra i quali il Vittorio Veneto. Mentre navigavamo il Vittorio Veneto si scontrò con la flotta Inglese e fu colpito ad un’elica. Poiché il danno subìto all’elica si presentava piuttosto serio, l’ammiraglio lachino, che si trovava sulla Vittorio Veneto, ordinò di schierare tre incrociatori su ciascun lato:
Fiume, Pota e Zara da una parte e Trieste, Trento e Bolzano dall’altra. Nel mentre la flotta italiana effettuava queste
manovre, arrivarono degli idrosiluranti inglesi che incominciarono ad-attaccare la flotta italiana. Dopo lunghe ore
di battaglia, al tramonto fu colpito il Pola.
L’ammiraglio lachino ordinò al Fiume e allo Zara di tornare indietro per rimorchiare il Pola. Mentre stavamo svolgendo tale operazione, con le macchine ferme, gli inglesi forniti di radar, ci tesero un agguato e ci attaccarono
di sorpresa con tutti i mezzi a loro disposizione (cannonate, bombe e siluri), Il Fiume fu colpito. lo stavo sonnecchiando con la testa sopra un proiettile – ero capocannoniere – al mio posto di combattimento alla
torre I a prua. Il mio capo impianto – capo vigilante di Salerno – mi chiamò, dicendo che tutti gli altri compagni
stavano mangiando. lo gli chiesi quale fosse il menù, lui mi rispose una scatoletta e una galletta.
In quel preciso istante ci fu una grande esplosione a poppa e la corrente elettrica s’interruppe. Subito dopo ci furono altre due esplosioni sempre a poppa, e l’incrociatore incominciò ad ma- bissarsi colando a poppa. Si sentivano urla e grida e dopo un attimo di smarrimento saltai dal boccaporto e mi trovai sul ponte a prua. Urla strazianti, feriti dappertutto, fuggi fuggi generale in cerca di un salvagente.
Ci buttammo a mare alla ricerca di una zattera per metterci in salvo e per allontanarci il più presto possibile dalla nave, dove si era creato un vortice che risucchiava uomini e qualsiasi oggetto galleggiante. Fortunatamente, appena mi trovai in mare riuscii a salire su di una zattera che era traboccante di uomini, e ci siamo allontanati velocemente. Per tutta la notte si sentirono e si videro le luci degli spari: il cielo sembrava illuminato a giorno.
La mattina dopo la scena era apocalittica: il mare era cosparso di cadaveri e uomini con salvagente. Dopo qualche ora arrivò un aereo da ricognizione inglese ed ammarò. Gli inglesi cercarono di farci capire che avrebbero mandato dei soccorsi.
Infatti verso il pomeriggio dello stesso giorno arrivarono dei cacciatorpediniere inglesi e incominciarono a
raccogliere alcuni naufraghi; nel mentre svolgevano queste operazioni, arrivò un ricognitore tedesco e si riprese a
sparare; i soccorritori furono costretti ad andare via. Restammo così in balia delle onde senza alcuna speranza di soccorso. Il primo giorno sulla mia zattera c’erano 50 uomini, man mano che passavano i giorni il numero si assottigliava sempre più. La sete e la fame incominciarono a diventare insopportabili. Si beveva la propria urina e quando un compagno moriva, si tagliavano le vene e se ne succhiava il sangue.
La sete era tanta. Le ore passavano lentamente, il sale era dappertutto. Non si parlava quasi se non per qualche ricordo. Il silenzio spesso veniva interrotto dalle urla dei compagni rimasti sulla zattera, avevano continuamente allucinazioni e visioni: vedevano tavole imbandite, vedevano le loro case, vedevano i loro cari e si gettavano in acqua. Cercavamo con le poche forze rimaste di tirarli a bordo, qualche volte ci riuscivamo e qualche volta no. Un mio compagno di Trieste, di cui non ricordo il nome, aveva spesso visioni e cercava di buttarsi a mare; cercai di ritirarlo a bordo diverse volte e a furia di fare ciò, il braccio del mio compagno si lacerò, fu uno dei sei superstiti della mia zattera. La fame e la sete erano insopportabili, mangiavamo il sughero della zattera. l delfini e gli squali cercavano di mangiarci i piedi e noi usavamo l’unico remo a nostra disposizione per allontanarli.
Trascorsero, così, quattro giorni e cinque notti. La sera del quarto giorno si vide del fumo all’orizzonte e facemmo
mille supposizioni: qualcuno pensava che fossero le coste greche, qualcun altro diceva che forse erano ritornati gli
inglesi. Al calare del sole riuscimmo a distinguere chiaramente una luce, eravamo salvi. (Tutti i marinai sanno che
le navi ospedaliere sono illuminate di notte anche se sono in guerra ).
Trascorse così anche un’altra notte, eravamo ormai allo stremo delle nostre forze. La mattina successiva, delusi, stanchi, afflitti, nessuno riusciva a parlare, avevamo la testa fra le gambe ed eravamo tutti in uno stato comatoso. All’improvviso sentimmo il rombo di una moto lancia, alzando la testa vedemmo una nave nelle vicinanze. Era la nave ospedaliera “Gradisca”.
Fummo così salvati. A bordo gli infermieri ci somministravano l’acqua con cucchiaini, dovevamo bere poco e lentamente; soprattutto ci raccomandarono di non bere durante la loro assenza perché si rischiava di morire. Sul comodino di ciascun naufrago c’era una bottiglia d’acqua, non appena uscirono infermieri e dottori, presi l’acqua e la bevvi tutta. Avevo tanto desiderato con tutte le mie forze bere per cinque lunghi, terribili e allucinanti giorni che non mi interessava morire! Raggiungemmo Messina dopo 8 giorni e scoprimmo che durante il nostro naufragio la corrente ci aveva spostato di 400 miglia. Restammo un mese al “Regina Margherita” di Messina e dopo ci mandarono a casa in convalescenza. Dopo tre mesi rientrai e mi mandarono prima in Grecia e poi a Napoli presso fa batteria contraerea, dove, restai fino alla fine della guerra.
Toccante è ciò che riferisce la figlia di Beniamino, prof.ssa Caterina Veneroso, a margine del racconto del padre:
“Ogni anno, nel mese di marzo, mio padre diventava cupo e triste, e la mattina del 28 marzo ci chiedeva se
ci ricordavamo che giorno fosse. Con gli anni imparammo e ricordammo. In quella data sentiva il bisogno di raccontarci ancora una volta la “sua” storia. Si sedeva, guardava a terra, incrociava le mani e parlava. Parlava con voce tremula e non alzava Io sguardo, per nascondere le lacrime”.
PREFAZIONE – Ugo Elia giovane marinaio della classe 1940, nato a Santa Maria di Castellabate (SA), oggi all’età di 81 anni sembra addentrarsi in un racconto come a voler rivivere un film, sempre più spesso vissuto da coloro che hanno prestato servizio nella Marina Militare.
Imbarcato sul Sommergibile Calvi, si trova di guardia durante una tempesta che scaglia flutti schiumosi contro la sagoma dell’unità ormeggiata in porto e che mette a dura prova la giovane vita di un marinaio.
La violenza dei flutti scuote il senso di responsabilità che l’incarico di guardia gli è stato assegnato e con l’aiuto di un commilitone riesce a sistemare i cavi nella giusta trazione, destreggiandosi con esperienza, dovere e abnegazione, sotto l’incubo della paura, trovandosi in situazione di particolare difficoltà, che ben presto si eclissa nelle righe del ricordo, scritto con l’orgoglio di chi sa di aver fatto non solo il proprio dovere, ma di sentirsi fiero quando il suo comandante, ne valorizza pubblicamente l’operato.
Ecco allora che i valori, dell’uomo lasciano spazio alla forza che il “marinaio” sa mettere in campo nel momento della difficoltà.
Di esempio per tutti i marinai di ogni ordine e grado.
Luogotenente Giannicola Guariglia.
Ugo Elia, socio del Gruppo dl Santa Maria di Castellabate.
Taranto, il Calvi è ormeggiato, io sono di guardia a bordo (allora ero Sottocapo) da tempo il sole è tramontato, gran parte dell’equipaggio in franchigia. Sentivo il vento fischiare e il mare incresparsi paurosamente.
Il mare vivo, forti schizzi d’acqua arrivavano in coperta portati da folate di vento, il sommergibile si spostava come fosse un pendolo, cavi d’ormeggio allentati. Una bettolina per Il rifornimento di carburante era affiancata, già con un cavo mollato, sbatteva contro il nostro scafo.
Sussisteva un pericolo incombente di fuoriuscita di nafta. A bordo pochi marinai, cioè la sola squadra di servizio. I più per giunta poco avvezzi con l’arte marinaresca. Fortunatamente fra questi era però presente Monteforte, mio stimatissimo amico, Sottocapo volontario, classe ’58, che lo vedevo già destreggiarsi tra “prora e poppa” del battello incurante di bagnarsi.
Aveva la situazione in mano, era urgente intervenire sui cavi di ormeggio del lato sinistro, quello della bettolina, inserendo a dovere i parabordi e cazzando i cavi. Il lato sinistro del sommergibile Calvi era quello più esposto a vento. Incuranti delle raffiche e dell’acqua che ci aveva inzuppati fino alle ossa, si continuava a lavorare senza sosta consapevoli del pericolo che il nostro amato battello correva.
Sistemiamo i cavi di prora nella giusta trazione, riprendendo l’imbando. I nostri occhi s’incrociano, “Elia e Monteforte chiedono aiuto”, i nostri colleghi sono come spettatori smarriti, pure essendo qualcuno più forzuto di noi due insieme. Credo che il loro cervello fosse momentaneamente bloccato, movimenti goffi, qualcuno inciampa sui cavi e cade, mando due marinai sui lati di poppa a riferire la situazione.
Mi accorgo che le mie mani non solo sono bagnate ma anche sporche di sangue. Si lavora senza guanti, lo stesso dicasi per Monteforte. A occhio ci sentiamo rassicurati: la prora risultava come imbrigliata, come domata a dovere. Decidiamo dì avviarci a poppa, contemporaneamente controlliamo la tenuta dell’ormeggio della bettolina, che rappresentava il maggior pericolo per il battello.
La pioggia iniziava a diminuire d’intensità, le nostre tute bagnate aderiscono al corpo e cominciamo ad accusare il freddo. Nel percorso verso poppa dico al mio amico e collega: “na fatia!” (che fatica) giacché la mia espressione dialettale lo faceva ridere.
In lontananza scorgo il Sottufficiale di servizio, che correva verso il battello (in seguito verrò a sapere che resosi conto della buriana non aveva aspettato nessuna chiamata per tornare sul sommergibile). Mi confessa Monteforte: quel giorno Ugo faceva parte della squadra di servizio, avendolo visto lavorare pensavo fra di me che questo amico ha mille risorse, non solo in senso figurativo, anche poi nella realtà, ad esempio, si diletta a suonare diversi strumenti; ripeto, mille risorse!
I ragazzi a terra stavano liberando il barbettone dal sacchetto per poi incappellarlo alla bitta, gli altri a bordo completavano la sua tenuta. Non essendo nocchieri, avevamo fatto un buon lavoro. Stendendo il braccio con pugno chiuso e pollice in l’alto faccio capire che va tutto bene.
il Sottufficiale mette piede a bordo, controlla la situazione della bettolina, s’avvia verso prora, poi verso poppa stessa prassi, fa qualche domanda in merito a chi materialmente avesse presa ogni decisione, Elia – Monteforte gli dicono; poco dopo scendiamo tutti in banchina.
Questi fa una leggera pausa di meditazione e rivolgendosi a tutti dice: bravi, ben fatto. Domani riferirò al Comandante. Dal suo giubbotto tira fuori diverse bustine di cordiale che tracanniamo con avidità. Un gesto amichevole e carino.
Saluto tutti, mentre con lo sguardo i miei occhi si fissano sul numero distintivo del nostro battello come volergli dare un saluto, una carezza. “503“, il numero del Calvi. Il giorno dopo, all’ora del panino, alle ore 12.00, assemblea generale presieduta del Comandante; siamo schierati in banchina.
Egli riporta in maniera sintetica l’operato del personale di servizio nella notte precedente durante la “buriana” e valuta con parole di elogio e apprezzamento l’operato; in particolare cita me e Monteforte. Sicuramente il Sottufficiale aveva riferito anche certi particolari.
L’assemblea si scioglie e m’avvio verso la segreteria al mio posto di lavoro. Sento una voce che dice: bravo Elia, mi giro e vedo il Comandante. Rispondo, il primo merito va soprattutto a Monteforte, senza il suo tempestivo intervento, senza il suo eccellente senso di coordinamento non so come sarebbe finita l’avventura.
Il Comandante replica semplicemente: “Io so, …grazie ancora!“. A distanza di oltre mezzo secolo questi ricordi testimoniano ancora oggi il legame sincero fra Monteforte e me. Questo episodio rafforzò ancor di più i nostri rapporti, la nostra amicizia e soprattutto il grande reciproco rispetto, la consapevolezza che nel momento del bisogno non sei solo.
Nato a Santa Maria di Castellabate (SA) il 1°aprile 1940. Vive in Germania dai primi di gennaio 1963. Ha sposato una donna tedesca, è padre di 5 figli e oggi nonno di 3 nipoti.
In gioventù, da marinaio, ha servito la Patria nel periodo 15 novembre 1960 – 31 dicembre 1962; congedato col grado di Secondo Capo, essendo in possesso di titolo di studio. Durante il periodo militare, dopo il giuramento a Taranto, è imbarcato sui sommergibili Vortice e Pietro Calvi.
I sommergibilisti vivono esperienze umane uniche; condividere gli stessi spazi, successi e paure, anche in tempo di pace, tante ma tante paure. Crea dei legami speciali, “unici”.
L’equipaggio di un battello è molto più di una squadra: metti la tua vita in ogni momento nelle mani di un tuo compagno e, contemporaneamente, la sua vita nelle tue. Non per copiare scene cinematografiche, ma queste parole vogliono soltanto esplicitamente dimostrare l’incredibile affiatamento che si crea fra questi soggetti.
E alla fine del mio servizio militare che mi resi conto di quello che avevo fatto, questo modo di pensare, di agire. Difficile da spiegare. Mi sono sentito orgoglioso di essere stato un Marinaio d’Italia “sommergibilista”, parte integrale dell’equipaggio, laggiù, nel profondo del mare, chiusi in un “sigaro di acciaio”, con colleghi, e superiori, amici per la pelle, uniti in unico destino.
"Tutti per uno…, uno per tutti!".
E solo alla fine di questi due anni da sommergibilista che mi sono reso effettivamente conto del valore di questo tratto di vita. Ho avuto la fortuna di essere stato amico di tanti colleghi.
Non posso elencarti tutti, tanti nomi non sono più presenti nella memoria ma vivi nel cuore: Boschetti – Calogero – Orlandi – Provenzano – Migliacci.
Uno di questi, in assoluto, voglio evidenziano e porlo in cima alla torretta: Enzo Antonio Monteforte: un amico di quelli che fanno la differenza. Un amico cui si può mettere la propria vita nelle sue mani.
In una parola semplice ma significativa… Sommergibilista!
Orlando Piroddi, nato a Ilbono nel 1923, si arruolò come volontario a 17 anni nella Regia Marina Italiana.
Arruolato in Marina con la categoria di radiotelegrafista imbarca sul sommergibile Velella. Durante la sua ferma in Marina comunicava spesso con i genitori e le sorelle in Sardegna.
Questa mattina a Ilbono si è tenuta la cerimonia di intitolazione di una via ad Orlando Piroddi, Sottocapo telegrafista della Marina Militare.
Aveva partecipato a diverse missioni con il sommergibile durante la sua permanenza a bordo.
L’ultima, e fatale, missione del Velella iniziò il 7 settembre 1943, quando ci si avviava a costituire uno sbarramento di sommergibili nel basso Tirreno per contrastare l’imminente sbarco degli alleati a Salerno.
Dopo la partenza da Napoli in direzione basso Tirreno, del sommergibile Velella e di tutto l’equipaggio non si seppe più nulla. E neanche del giovane ogliastrino.
Solo a distanza di anni, nel secondo dopoguerra, si è venuti a conoscenza della tragica fine. Il sommergibile Velella è affondato per mezzo dei siluri del sommergibile inglese Shakespeare, verso le 20 dello stesso 7 settembre 1943, al largo di Punta Licosa, nel Golfo di Salerno. L’armistizio ormai come noto, è stato firmato l’8 settembre 1943.
«A nome dell’amministrazione comunale di Ilbono, ringrazio per la loro presenza, i familiari tra i quali la dottoressa Marilena Lara, il Parroco di Ilbono Don Luigi Murgia, e le rappresentanze del Commissariato di Polizia di Lanusei, della Stazione dei Carabinieri di Ilbono, della Tenenza Finanza di Arbatax, l’ANMI Cagliari, l’ANMI Tortolì-Arbatax, la Capitaneria di Porto di Arbatax, l’Ammiraglio Sergio Ghisu e il Sindaco di Tortolì Massimo Cannas» commenta il primo cittadino ilbonese Andrea Piroddi.
Fonte: Vistanet
Festa della Repubblica
Pugni pupe e marinai è stato distribuito anche con il titolo Allegri marinai.
Ai marinai della fregata Carabiniere (Classe Alpino) della Marina Militare Italiana viene assegnato un lavoro punitivo per la loro rissosità, si tratta di riparazioni subacquee presso un’isoletta di fronte alla quale c’è un bagno frequentato da ragazze americane con cui fanno amicizia.
Si impadroniscono di un motoscafo per fare una gita che, però, si rivela un bersaglio radiocomandato per le esercitazioni di tiro navali. Il motoscafo viene colpito ed affondato e i marinai vengono salvati da un peschereccio. Ora gli si presenta il problema di tornare alle loro consegne.
Il peschereccio sbarca la compagnia a Napoli dove iniziano una serie di rocambolesche avventure per procurarsi i mezzi per tornare sull’isolotto e sfuggire ai sospetti del comandante. Alla fine, riescono a raggiungere l’isola prima del comandante.
Altri film sulla Marina
Marinai donne e guai parla di quattro marinai italiani del cacciatorpediniere San Giorgio: Mario, Pietro, Raffaele e Domenico. Tutti sono dei donnaioli matricolati e il capo, il maresciallo Ugo Campana, visto il prossimo attracco a Barcellona, decide di tenerli lontano il più possibile dalle donne, visti i guai combinati dai quattro nei viaggi passati.
Ma appena arrivati giunge Manuela, una bella ragazza complice di una banda di contrabbandieri, che seduce apposta Mario per far entrare i malviventi al porto. Intanto gli altri tre se la stanno spassando allegramente con altre ragazze per le calde e seducenti vie di Barcellona.
Ma alla resa di conti succede che Mario, Pietro, Domenico e Raffaele si ritrovano con le loro ragazze in un malfamato locale notturno in cui improvvisamente scoppia una violenta rissa tra contrabbandieri, ubriaconi, killer e marinai.
I quattro ragazzi hanno la meglio e vengono premiati per aver sventato il complotto di Manuela e dei complici.
Fonte Marinai donne e guai: Wikipedia