Il Velella d’acciaio articolo inchiesta
ll sommergibile affondò 72 anni fa: fu l’ultimo perso nella guerra contro gli Alleati di DOMENICO NOTARI
Porticciolo di Punta Licosa in un calda giornata di settembre. Disteso sugli scogli, dopo l’ultimo tuffo di stagione, osservo curioso i bagnanti. Un bambino fissa affascinato un piccolo dischetto pulsante, di un blu elettrico, che naviga verso riva. Ha una piccola membrana trasparente che, a mo’ di vela, cattura la brezza e lo fa avvicinare inesorabilmente agli scogli. Nascondo a stento il mio entusiasmo e mi trattengo dal correre verso quel piccolo prodigio.
Mi limito a osservarlo da lontano, anch’io con occhi infantili. È una medusa: una velella o barchetta di San Pietro. Seguirà lo stesso destino delle altre, già spiaggiate a centinaia tra gli scogli. Forse spaventato da tanta bellezza, o forse proprio per preservarla, il bambino all’improvviso raccoglie un sasso ed entra in acqua.
La medusa centrata in pieno affonda, risucchiata dalla scia del sasso. La scena, in maniera istantanea, mi rimanda a un’altra immagine: un sommergibile della Regia Marina che si chiamava come la medusa. Quel nome non gli portò fortuna né la portò ai 50 uomini del suo equipaggio: il comandante Mario Patanè, il suo secondo Vittori, il guardiamarina Bazzani, l’aspirante guardiamarina Novellini, il direttore di macchina Serrati, il sottotenente del genio navale Bandini e gli altri 44 uomini, tra sottufficiali e comuni.
La Velella d’acciaio giace a nove miglia al largo di Punta Licosa, a 137 metri di profondità, latitudine 40°15’N, longitudine 14°30’E, come rilevato nel 2003 da una spedizione di sommozzatori dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia – Sezione Santa Maria di Castellabate. Affondò in un giorno altrettanto caldo di 72 anni fa, il 7 settembre del ’43 – ultimo sommergibile italiano perso nella guerra contro gli Alleati.
Missioni
Uscito nel ’37 dai cantieri di Monfalcone, il Velella solca con alterne fortune l’Egeo, il Mar Rosso, l’Atlantico e infine il Mediterraneo, chiamato a contrastare lo sbarco anglo-americano in Sicilia. Colpito da un aerosilurante davanti alle coste pugliesi, si salva per miracolo. Ma l’appuntamento con il destino è solo rinviato: la sua “Samarcanda” è nelle acque di Salerno. Prima un ultimo scalo: il porto di Napoli. Qui avviene l’incontro tra Domenico Fabbricini, un ragazzo quindicenne di Portici, e il comandante.
Il ragazzo gli chiede di visitare il sommergibile. Patanè lo fa salire a bordo, vedendo in lui il figlio che ha lasciato ad Acireale. Caratteristiche e prestazioni del Velella resteranno impressi nella memoria eccitata del ragazzo: lunghezza 63,14 metri, larghezza 6,90, stazza 810 tonnellate, velocità 14 nodi in navigazione di superficie e 8 in immersione, profondità massima 100 metri.
Il suo sguardo è rapito soprattutto dalle armi: 4 mitragliatrici antiaeree in plancia di comando, cannone da 100 mm sul piano di coperta, tubi di lancio a poppa e a prua. Tra Domenico e il comandante nasce spontanea un’amicizia. Possono una breve visita e qualche battuta di un uomo taciturno segnare per sempre il destino di un ragazzo?
Mario Patanè, per un attimo presago del suo destino incombente, all’improvviso gli parla di morte: “Sai qual è la miglior tomba per un marinaio?”
Il sorriso di Domenico si spegne di colpo. “Il mare?” balbetta.
“Bravo! Ma io preferirei una tomba da contadino: una gialla distesa di grano”.
L’Armistizio
L’armistizio è stato già firmato il 3 settembre, ma il gruppo di cospiratori che ha trattato la resa con gli Alleati – il Re e Badoglio in testa – non prende nessuna misura per prevenire le conseguenze di quell’atto e non ne informa i vertici militari. Nel nome del segreto di Stato, vengono abbandonati al loro destino 800.000 soldati. Anche se poi quel segreto è infranto dagli stessi Badoglio e Ambrosio.
I galantuomini hanno una missione ineludibile: salvare la famiglia. Il 4 settembre, il Maresciallo manda in Svizzera figlia, nuora, nipoti e denari. Il 5, il capo di Stato Maggiore Generale abbandona il comando e parte per Torino, ufficialmente per salvare i mobili di casa. Solo il Re, trasferitosi – dice lui – per proteggere la monarchia, si rivela tutto d’un pezzo, abbandonando la figlia Mafalda, la nuora e il nipotino – l’erede al trono – alla mercé dei tedeschi.
Al consigliere americano Murphy che gli chiede – dopo la fuga – se possa far qualcosa per lui, risponde: “Non sono stato in grado di trovare delle uova fresche. È possibile acquistarne una dozzina?”.
Il 7 settembre, all’oscuro di tutto, il Comando Sommergibili, nella certezza di un imminente sbarco alleato, rende esecutivo il piano Zeta, schierando 11 unità, tra cui il Velella, a difesa del basso Tirreno. Alle ore 15 del 7, il Velella lascia Napoli. Quel giorno, il sottomarino inglese Shakespeare staziona a circa 5 miglia dal promontorio di Licosa. Alle 19.53 il Velella, diretto a sud-ovest, gli passa accanto navigando in emersione.
Fatale destino
Destino vuole che a quell’ora, contro la luce del crepuscolo, sia un bersaglio fin troppo evidente. Lo Shakespeare gli lancia contro sei siluri, uno dei quali lo colpisce in pieno, facendolo colare a picco. 22 ore dopo, Radio Algeri annuncia l’avvenuto armistizio, costringendo il maresciallo Badoglio, che ancora tentenna, a confermarlo da Radio Roma, con un proclama che si abbatte come un fulmine a ciel sereno su una nazione impreparata. Alle 21.10, il Maricosom trasmette l’ordine di cessare le ostilità. Ma il nostro sommergibile, ormai, non può riceverlo.
Dopo il ritrovamento del relitto, nel 2003, la memoria del Velella diventa una ragione di vita per Domenico Fabbricini, ormai settantenne. La sua missione è di quelle ineludibili: tornare ogni mese sul luogo dell’affondamento e gettare qualche fiore tra le onde. D’estate, un fascio di spighe di grano.
Fonte La Città di Salerno