TRATTO DA: La voce del marinaio
…fu il nostro controspionaggio navale a compiere l’impresa che smascherò i sabotatori della “Brin” e della “Leonardo“.
Gli avvenimenti.
Quindici minuti prima delle ore otto, il 27 settembre 1915, il sole era già alto sul mare davanti a Brindisi. La “Benedetto Brin“, bellissimo mostro di ferro alla fonda, inalberava l’insegna ammiraglia con una cerimonia sbrigativa ma austera. Sulla corazzata la vita ricominciava: gli ufficiali davano ordini secchi, i marinai correvano sulla tolda, sottocoperta le macchine ruggivano.
Alle otto precise la tragedia, improvvisa, senza preavviso e perciò ancor più drammatica. Una esplosione tremenda, dal ventre profondo della nave, squassò il mare. Non ci furono contraccolpi, né la massa immensa di ferro fu minimamente sollevata: fu udito soltanto un rombo immane come se mille cannoni avessero sparato all’unisono e subito dopo la corazzata scomparve alla vista, avvolta da un fumo giallo rossastro che si alzò fino a cento metri. Sulle banchine del porto, sulle tolde delle altre navi la vita si fermò.
Tutti puntarono gli occhi sulla nube rossa che galleggiava là dove prima dondolava la “Brin”. Pochi attimi di attesa e poi la tragedia apparve in una visione che l’orrore e il panico rendevano al rallentatore. Il mostro non tentò di reagire, scivolò di fianco, prima la poppa poi la prua.
Si organizzarono i soccorsi dal porto e dalle navi. Sulla “Brin” si udivano soltanto i lamenti dei feriti, marinai imprigionati da lamiere contorte, altri bloccati nei boccaporti; i vivi dominavano il panico; nessuno lasciò la nave prima che fosse dato l’ordine.
Rimorchiatore e scialuppe caricarono con ordine i superstiti. In un’ora l’operazione di salvataggio era completata. All’appello non risposero 21 ufficiali su trenta; 433 tra sottufficiali e marinai su 906. La corazzata si era portata in fondo al mare 454 uomini.
Prime versioni
In un primo momento la versione ufficiale parlò di esplosione della “santa barbara”. Una speciale commissione d’inchiesta si mise subito al lavoro.
Sulla scia dei primi accertamenti si creò un’ondata di nervosismo. Comparvero sui giornali le prime critiche. La commissione d’inchiesta continuava i suoi lavori, lasciando intuire una nuova ipotesi: sabotaggio.
La rete di spie che gli austro-tedeschi avevano teso in tutta Europa funzionava da anni. Era una guerra segreta, parallela a quella combattuta sui fronti, intessuta di intrighi e tradimenti. Un’arma invisibile che aveva già dato risultati efficaci, riuscendo a sabotare officine, fabbriche e arsenali.
Gente comune o esperti?
La commissione trasmise al nostro controspionaggio i propri sospetti, che erano anche quelli della gente comune. E il nostro servizio segreto si mise alla caccia dei traditori. Ma la strada era lunga e costellata da altre tragedie. La più spaventosa accadeva pochi mesi dopo, nell’estate del 1916. Quella sera, il 2 agosto 1916, il Mar Piccolo di Taranto pareva una foresta, con gli alberi della prima squadra navale azzurrati dal mascheramento notturno. Era una notte senza luna e afosa; l’insegna ammiraglia sulla “Cavour” giaceva afflosciata, come le bandiere delle altre navi da battaglia: “Andrea Doria“, “Giulio Cesare“, “Duilio“, “Leonardo da Vinci“, “Dante Alighieri“.
I marinai erano rientrati dalla libera uscita, alle 22 il trombettiere aveva suonato il “brand’abbasso”. Alle 23, mancavano pochi minuti, la “Leonardo da Vinci”, fu scossa da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo per un istante tremò e anche gli alberi di poppa e di trinchetto ondeggiarono violentemente. Poi tornò il silenzio.
Alcuni ufficiali, corsi in coperta, notarono un filo di fumo rossastro uscire dai boccaporti della torre corazzata. Il pericolo di un incendio era serio: là sotto infatti si trovava la “santabarbara”. Esplosioni sempre più frequenti squassavano il ventre della nave, a prua e a poppa; le piastre del ponte si schiodavano; la luce mancò. Per parecchi minuti il panico sconvolse l’ordine delle operazioni che gli ufficiali stavano ordinando. Dall’ascensore delle munizioni una fiammata irruppe in coperta. Gli uomini ammassati a prua si gettarono in acqua, ma centinaia di marinai erano ancora ai loro posti sottocoperta.
Alle 23:40 l’esplosione.
La “Leonardo” si spaccò in tanti crateri, con un rombo che percorse l’aria per molte miglia attorno. Fiamme altissime illuminavano la notte; i marinai venivano inghiottiti nelle voragini prodotte dagli scoppi. Alle 23:45 la corazzata si capovolgeva: cominciava un’agonia che non sarebbe stata lenta.
Persero la vita, con 249 marinai, 21 ufficiali; fu distrutta una delle nostre più belle e moderne corazzate.
La catastrofe fu grave. Insieme con la perdita della “Brin”, quella della “Leonardo” decimava la potenza della nostra flotta; ma la sciagura gettava nello sgomento l’opinione pubblica, nella quale si diffondevano la certezza e la paura di essere in balia dei sabotatori.
Non solo le due grandi navi “Benedetto Brin” e “Leonardo da Vinci” sono le vittime dei sabotatori.
Un vasto incendio distrugge una intera calata del porto a Genova. Salta in aria a Livorno il piroscafo “Etruria”. Un hangar dei dirigibili della marina brucia ad Ancona. Salta il dinamitificio del Cengio. Gravi danni subisce per uno scoppio la centrale idroelettrica di Terni. Più terribile di tutti, un carro ferroviario carico di proiettili navali in partenza dalla fabbrica di munizioni di Pagliari (La Spezia), esplode con terrificante violenza: tra civili e militari muoiono 265 persone. Subito dopo, sabotaggio anche alla stazione di Vallegrande, per fortuna senza vittime.
La guerra rischia di subire una svolta drammatica per l’Italia a causa di un piano terroristico abilmente ordito e che dispone chiaramente di diramazioni e di complicità all’interno del paese. Bisogna combattere subito questo pericolo gravissimo.
Come al solito, é una fortuita e imprevedibile circostanza a mettere sulla buona pista le indagini.
Un sospettato in arresto
Un uomo viene arrestato dai Carabinieri proprio mentre sta piazzando una potente carica di dinamite sotto la diga del bacino idroelettrico delle Marmore Alte, presso Terni. La cattura del sabotatore è importante anche perché conferma un sospetto già radicato nel controspionaggio: si tratta di un italiano, il nemico fa leva su gente disposta a tradire per denaro la patria in guerra. Quasi contemporaneamente altri due individui minano le centrali elettriche del Chiamonte e del Sempione, ma all’ultimo istante uno si pente, si costituisce e parla.
Nella rete che gli austriaci stanno tessendo per colpire al cuore l’Italia, comincia ad aprirsi una falla.
Chi si mette al lavoro per primo è il servizio di controspionaggio della Marina, anche perché la Marina è stata la più duramente colpita. Lo dirige il Capitano di Vascello Marino Laureati, i mezzi sono pochi, gli uomini meno ancora, ma adesso – di fronte alla gravità dei fatti – il Governo si scuote e qualcosa di concreto (in denaro e in specialisti) viene assegnato a Laureati.
Il Capitano si muove bene.
Dagli interrogatori dei sabotatori arrestati, e dalle confidenze strappate all’estero da nostri agenti segreti, oltre che dalle notizie fornite dagli informatori, riesce ad accertare che il centro organizzativo dell’azione terroristica si trova in Svizzera. Precisamente a Zurigo, nella sede del consolato austriaco in quella città. Chi tira le fila è il Console in persona, il quale in realtà è un Capitano di Corvetta della Imperial Regia Marina di Vienna.
Rudolph Mayer
Il suo nome è Rudolph Mayer, la sua disponibilità di fondi pressoché illimitata, le sue offerte in cambio dei sabotaggi compiuti sulle navi, strabilianti. Per un sommergibile, 300 mila lire, per un incrociatore, 500 mila; per una corazzata, un milione. Denaro di allora. In cifre d’oggi, bisogna moltiplicare almeno per mille: ciò significa che l’affondamento della “Brin” ha reso al sabotatore un miliardo. Di fronte a quelle somme, il traditore si trovava sempre.
Prime mosse
La prima mossa di Laureati è di coinvolgere un abile ufficiale di Marina, il Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi, diplomatico di carriera. Viene inviato in Svizzera, alla legazione di Berna, e si mettono a sua disposizione alcuni dei più abili seguaci italiani. Aloisi comincia a studiare la situazione e a far sorvegliare la palazzina dove ha sede il consolato austriaco.
Il piano che prepara è arditissimo: entrare nell’ufficio di Mayer, aprire la cassaforte, portar via i progetti dei sabotaggi e le cartelle dei sabotatori, smascherando così l’intera organizzazione.
Al ministero della Marina fanno sapere che non vogliono entrarci.
Il “colpo” può suscitare complicazioni internazionali pericolosissime, nessun ufficiale della Marina deve esservi materialmente coinvolto. La cosa si faccia, ma senza compromettere nessuno.
Laureati parla con Aloisi, gli dice che lui è d’accordo: si proceda.
Comincia una delle più strabilianti imprese spionistiche di tutti i tempi.
Si reclutano i partecipanti al “colpo”. In primo luogo l’avvocato Livio Bini, di Livorno, un rifugiato a Zurigo che è stato colui che ha segnalato il covo di Mayer. Poi due ingegneri triestini, ottimi agenti segreti: Salvatore Bonnes e Ugo Cappelletti. Infine, gli “uomini di mano”: il marinaio Stenos Tanzini, di Lodi, divenuto sottocapo per le sue doti di tecnico e di specialista torpediniere, già arruolato nel controspionaggio navale. Sarà lui il capo della pattuglia.
Poi un meccanico profugo triestino, Remigio Bronzin specialista nel fabbricare chiavi. Ancora, un agente di Mayer che fa il doppio gioco, di cui non si saprà mai il nome e che agisce dall’interno del consolato. Infine, uno scassinatore professionista. Si chiama Natale Papini, è di Livorno, sono andati a pescarlo in carcere dove si trova per avere svaligiato una banca di Viareggio, è uno specialista nell’aprire casseforti. Lo convincono facilmente: o a Zurigo per l’impresa, e dopo libero e compensato o subito al fronte.
L’équipe è pronta.
Mentre si osserva dall’esterno tutto quanto si svolge nella palazzina (abitudine degli impiegati, orari, aspetto fisico, frequentatori, vie d’accesso, ronde di polizia, ecc.), l’agente del doppio gioco comincia a fornire le prime indicazioni preziose. Dice dove si trova la cassaforte e qual è, ma avverte anche che per giungervi bisogna passare attraverso ben sedici porte, di ognuna delle quali occorre possedere la chiave. Pensa lui a fornire le impronte e presto questa che sembrava una difficoltà insormontabile è superata.
Gli uomini di Tanzini hanno le sedici chiavi in questione.
Infine, si disegnano addirittura le piante degli uffici, si traccia la strada, si scelgono i tempi dell’assalto. Si stabilisce che si tenterà la notte del 22 febbraio 1917, perché è Carnevale e in quell’occasione la sorveglianza della polizia è rallentata, la gente ha altro da fare che interessarsi alla palazzina del consolato austriaco. Al giovedì grasso, mentre il resto d’Europa è in guerra, Zurigo impazza tra veglioni e coriandoli.
Carichi di pacchi e di valigie (bisogna portare anche la fiamma ossidrica per Papini, i teloni di spesso panno blu per oscurare le finestre), si muovono a notte fonda in quattro: Tanzini, Papini, Bronzin e Bini. Entrano inosservati, si muovono sicuri, aprono una dopo l’altra le sedici porte. Si fermano davanti alla diciassettesima, non prevista da alcuno: l’agente doppio l’aveva sempre vista aperta e non pensava che anche quella fosse chiusa di notte. Bisogna desistere. La sorpresa è terribile.
Si raccoglie il bagaglio e si torna sui propri passi.
Si ricomincia da capo con assillante premura. Compiendo autentici miracoli, l’agente doppio fornisce lo stampo della diciassettesima porta a tempo di record. Bronzin fabbrica la chiave. Si decide di ritentare nella notte del ventiquattro, sabato grasso: i due guardiani del consolato saranno assenti, un grosso cane lupo che circola all’interno del giardino verrà addormentato col cloroformio.
Alle ventuno in punto i quattro aprono la porta della palazzina del consolato austriaco e, una dopo l’altra, le sedici porte successive già aperte la volta precedente. Anche la diciassettesima cede e finalmente si arriva nell’ufficio di Mayer, dove si trova la cassaforte da svaligiare. Vengono subito oscurate le finestre con i panni neri per impedire che trapeli luce. Tanzini accende una grossa torcia portatile. Sotto, in strada, a far la guardia, restano Bonnes, Cappelletti e Bini. Dentro, Papini si mette all’opera con la fiamma ossidrica. Aloisi ha calcolato i tempi: se tutto andrà bene, l’operazione durerà poco più di un’ora.
Ne durò quattro.
Le pareti d’acciaio della cassaforte resistevano all’attacco, Papini dovette lavorare fino all’esaurimento della resistenza fisica. Quando riuscì a perforare la parete esterna, fuoriuscì un getto di gas venefico, perché gli austriaci avevano fatto ricorso anche a quel marchingegno per garantirsi al massimo contro gli assalti di eventuali scassinatori. Bisognò spegnere la luce, aprire le finestre per far uscire il gas, poi Papini si rimise all’opera coprendosi il naso e la bocca con un panno bagnato, bevendo ogni tanto lunghe sorsate dell’acqua d’un vaso da fiori per placare l’irritazione della gola.
Era l’una passata del mattino quando si poté mettere le mani sul bottino.
Documenti, codici di cifratura, l’elenco completo delle spie austriache in Italia, il numero dei conti correnti della banca di Lugano dove venivano depositate le somme loro pagate per i sabotaggi, i piani per i futuri attentati (e fu così che si apprese che gli austriaci si stavano preparando a far saltare la “Giulio Cesare” nel porto di La Spezia: e si intervenne in tempo). Nella cassaforte vi era anche una grossa somma di denaro, 650 sterline d’oro e 875 mila franchi svizzeri che passarono al controspionaggio della Marina.
La refurtiva
Inoltre gioielli e una preziosa collezione di francobolli, subito depositati presso il ministero della Marina a Roma.
Con tre valigie piene di materiale il “commando” esce dal consolato all’una e mezzo di notte. Nessuno se ne cura. Tanzini e Papini portano le tre valige in stazione. Bini va a casa. Bronzin invece si reca al consolato italiano ad avvisare gli agenti Cappelletti e Bonnes che tutto è andato bene. Poi Bonnes e Bronzin ragiungono Tanzini e Papini alla stazione e partono insieme con loro per Berna, dove Aloisi li attende distrutto dall’ansia.
Arrivano alle otto del mattino, Bronzin e Papini proseguono per l’Italia. Per guadagnare tempo e impedire che lo scasso fosse scoperto troppo presto, Bronzin ha spezzato una chiave nella serratura dell’ufficio di Mayer, così che i custodi il mattino successivo dovranno avvertire il capitano austriaco che l’uscio non si apre, si ricorrerà a un fabbro, passerà del tempo e i nostri avranno agio di prendere il largo indisturbati.
A Berna, Bonnes consegna le valigie ad Aloisi e subito fanno lo spoglio del bottino. Tocca a Bonnes stesso, che conosce il tedesco, tradurre i testi.
Subito ci si rende conto dell’importanza del “colpo”.
Basti dire che i due si trovano in mano la relazione completa dell’affondamento della “Leonardo” (con le iniziali del nome dell’affondatore, ing. I. F.) e i piani per far saltare la “Giulio Cesare”.
Il giorno dopo Aloisi parte per l’Italia con i documenti più importanti e con i valori rinvenuti, mentre Bonnes prosegue a Berna lo spoglio e la traduzione: passati alcuni giorni, anche lui raggiunge il barone Aloisi nella capitale.
E’ stato un trionfo.
Quali i risultati?
Vennero fatte retate di spie. Si fecero due o tre processi, conclusi con un pugno di mosche. Alcuni nomi di colpevoli sparirono dalle carte, documenti interessanti vennero strappati o mutilati, personaggi grossi che avrebbero dovuto essere coinvolti restarono nell’ombra. La verità non giunse mai a galla e ogni cosa finì in un insabbiamento generale. I morti di Taranto e di Brindisi, morti per di più per mano assassina di traditori italiani, non ebbero giustizia.