VIAGGIO NELLA MEMORIA Marinaio Beniamino Generoso.
Prefazione
Non si poteva trovare titolo più appropriato nel raccogliere le memorie e testimonianze di chi ha ricevuto dal
destino l’opportunità di raccontare quello che per tanti altri si trattò di un evento funesto.
Il racconto del giovane marinaio Beniamino Veneroso nato a Pisciotta (SA), si interseca con quello meno fortunato del giovane Francesco Chirico, anch’egli originario del Cilento (Futani), entrambi imbarcati sul Regio Incrociatore Fiume, la cui sorte rimbalzò agli onori della cronaca per il ritrovamento sulle coste della Sardegna dieci anni dopo essersi inabissato insieme all’unità, di una bottiglia contenente il messaggio indirizzato alla madre che il Chirico lanciò in mare prima di morire.
Commovente, per non dire straziante, è Il racconto che il Veneroso descrive, con enorme lucidità, gli attimi vissuti
prima e dopo la cruenta battaglia navale di Matapan, in cui la flotta italiana subì una pesante sconfitta e la perdita di uomini e mezzi, soprattutto perché la flotta inglese iniziavano a sperimentare il radar. Dopo giorni e notti trascorsi
in mezzo al mare, afflitti dalle disperate grida di coloro che, vuoi perché feriti, disidratati, vuoi perché sopraffatti
dalla stanchezza, venivano aggrediti dagli squali, il salvataggio dei superstiti avvenne ad opera dell’unità
Ospedaliera Gradisca.
Ancora una volta il ricordo riporta in vita momenti di altissima dedizione ai valori di patriottismo di cui i nostri
marinai si sono sempre distinti.
Giannicola Guariglia – Presidente del gruppo ANMI di Santa Maria di Castellabate
LA BATTAGLIA DI CAPO MATAPAN: Beniamino Veneroso e Luigi Saddi
Il Capo Matapan, all’estremo Sud della penisola peloponnesiaca, è tristemente noto perché nel suo mare si sono
svolte cruentissime battaglie navali. Famosa è quella del 19 luglio 1717 tra veneziani e turchi, risoltasi in una
sonora sconfitta dei turchi, costretti a ritirarsi a Costantinopoli.
Ma la battaglia per noi più vicina e tragica è quella svoltasi il 28 e 29 marzo 1941 fra la flotta italiana e quella
inglese. Lo scontro segna un gravissimo insuccesso per la flotta italiana che, anche a seguito dell’incursione al porto di Taranto del novembre 1940 e del bombardamento di Genova del febbraio 1941, sarà costretta a lasciare alla Marina inglese il controllo e l’iniziativa in tutto il Mediterraneo.
La squadra italiana, guidata dalla corazzata Vittorio Veneto, al comando dell’Ammiraglio Jachino, si porta, il
giorno 28, all’altezza di Creta, con l’intenzione di intercettare i convogli inglesi, in rotta dall’Africa alla Grecia. La
squadra inglese, al comando dell’Ammiraglio Cunningham, sostenuta dall’aviazione, affronta quella italiana, che ne
esce battuta per l’insoddisfacente coordinamento aeronavale, oltre che per la mancanza del radar, che aveva
consentito agli inglesi di avvistare con largo anticipo gli italiani.
Nella notte del 29 la Vittorio Veneto e poi l’incrociatore Pola vengono immobilizzati. Altri incrociatori, tra i quali Fiume e Zara, e cacciatorpediniere, tra i quali Alfieri e Carducci, vengono colpiti e affondano in pochissimi minuti.
Pochi sono i superstiti, tra cui il pisciottano Beniamino Veneroso, che si trova a bordo del Fiume, e Luigi Saddi, nocchiero sullo stesso incrociatore, oggi vivente a Pisciotta.
Beniamino Veneroso, nato a Pisciotta nel 1919, a dicembre del 1939 fu a Taranto imbarcato sull’incrociatore Fiume. Prese parte, il 9 luglio 1940, alla battaglia di Punta Stilo. Era con la sua nave nella rada di Taranto quando, l’1 novembre, ci fu un attacco di idrosiluranti inglesi: furono sparati tantissimi colpi che sembravano fuochi artificiali. Ancora, il 27 novembre, combatté a Capo Teulada una battaglia che durò oltre un’ora e durante la quale furono sparate tutte le munizioni della Santa Barbara. L’esperienza più terribile fu però la battaglia di Gaudio e Matapan del 28 marzo 1941.
La racconta lui stesso:
Il 26 Marzo gli incrociatori Fiume (dove io mi trovavo imbarcato), Pota e Zara e i cacciatorpediniere Alfieri, Carducci, Oriani e Gioberti lasciarono il porto di Taranto per scortare un convoglio che era diretto in Africa; più tardi dovevano raggiungerci altri incrociatori tra i quali il Vittorio Veneto. Mentre navigavamo il Vittorio Veneto si scontrò con la flotta Inglese e fu colpito ad un’elica. Poiché il danno subìto all’elica si presentava piuttosto serio, l’ammiraglio lachino, che si trovava sulla Vittorio Veneto, ordinò di schierare tre incrociatori su ciascun lato:
Fiume, Pota e Zara da una parte e Trieste, Trento e Bolzano dall’altra. Nel mentre la flotta italiana effettuava queste
manovre, arrivarono degli idrosiluranti inglesi che incominciarono ad-attaccare la flotta italiana. Dopo lunghe ore
di battaglia, al tramonto fu colpito il Pola.
L’ammiraglio lachino ordinò al Fiume e allo Zara di tornare indietro per rimorchiare il Pola. Mentre stavamo svolgendo tale operazione, con le macchine ferme, gli inglesi forniti di radar, ci tesero un agguato e ci attaccarono
di sorpresa con tutti i mezzi a loro disposizione (cannonate, bombe e siluri), Il Fiume fu colpito. lo stavo sonnecchiando con la testa sopra un proiettile – ero capocannoniere – al mio posto di combattimento alla
torre I a prua. Il mio capo impianto – capo vigilante di Salerno – mi chiamò, dicendo che tutti gli altri compagni
stavano mangiando. lo gli chiesi quale fosse il menù, lui mi rispose una scatoletta e una galletta.
In quel preciso istante ci fu una grande esplosione a poppa e la corrente elettrica s’interruppe. Subito dopo ci furono altre due esplosioni sempre a poppa, e l’incrociatore incominciò ad ma- bissarsi colando a poppa. Si sentivano urla e grida e dopo un attimo di smarrimento saltai dal boccaporto e mi trovai sul ponte a prua. Urla strazianti, feriti dappertutto, fuggi fuggi generale in cerca di un salvagente.
Ci buttammo a mare alla ricerca di una zattera per metterci in salvo e per allontanarci il più presto possibile dalla nave, dove si era creato un vortice che risucchiava uomini e qualsiasi oggetto galleggiante. Fortunatamente, appena mi trovai in mare riuscii a salire su di una zattera che era traboccante di uomini, e ci siamo allontanati velocemente. Per tutta la notte si sentirono e si videro le luci degli spari: il cielo sembrava illuminato a giorno.
La mattina dopo la scena era apocalittica: il mare era cosparso di cadaveri e uomini con salvagente. Dopo qualche ora arrivò un aereo da ricognizione inglese ed ammarò. Gli inglesi cercarono di farci capire che avrebbero mandato dei soccorsi.
Infatti verso il pomeriggio dello stesso giorno arrivarono dei cacciatorpediniere inglesi e incominciarono a
raccogliere alcuni naufraghi; nel mentre svolgevano queste operazioni, arrivò un ricognitore tedesco e si riprese a
sparare; i soccorritori furono costretti ad andare via. Restammo così in balia delle onde senza alcuna speranza di soccorso. Il primo giorno sulla mia zattera c’erano 50 uomini, man mano che passavano i giorni il numero si assottigliava sempre più. La sete e la fame incominciarono a diventare insopportabili. Si beveva la propria urina e quando un compagno moriva, si tagliavano le vene e se ne succhiava il sangue.
La sete era tanta. Le ore passavano lentamente, il sale era dappertutto. Non si parlava quasi se non per qualche ricordo. Il silenzio spesso veniva interrotto dalle urla dei compagni rimasti sulla zattera, avevano continuamente allucinazioni e visioni: vedevano tavole imbandite, vedevano le loro case, vedevano i loro cari e si gettavano in acqua. Cercavamo con le poche forze rimaste di tirarli a bordo, qualche volte ci riuscivamo e qualche volta no. Un mio compagno di Trieste, di cui non ricordo il nome, aveva spesso visioni e cercava di buttarsi a mare; cercai di ritirarlo a bordo diverse volte e a furia di fare ciò, il braccio del mio compagno si lacerò, fu uno dei sei superstiti della mia zattera. La fame e la sete erano insopportabili, mangiavamo il sughero della zattera. l delfini e gli squali cercavano di mangiarci i piedi e noi usavamo l’unico remo a nostra disposizione per allontanarli.
Trascorsero, così, quattro giorni e cinque notti. La sera del quarto giorno si vide del fumo all’orizzonte e facemmo
mille supposizioni: qualcuno pensava che fossero le coste greche, qualcun altro diceva che forse erano ritornati gli
inglesi. Al calare del sole riuscimmo a distinguere chiaramente una luce, eravamo salvi. (Tutti i marinai sanno che
le navi ospedaliere sono illuminate di notte anche se sono in guerra ).
Trascorse così anche un’altra notte, eravamo ormai allo stremo delle nostre forze. La mattina successiva, delusi, stanchi, afflitti, nessuno riusciva a parlare, avevamo la testa fra le gambe ed eravamo tutti in uno stato comatoso. All’improvviso sentimmo il rombo di una moto lancia, alzando la testa vedemmo una nave nelle vicinanze. Era la nave ospedaliera “Gradisca”.
Fummo così salvati. A bordo gli infermieri ci somministravano l’acqua con cucchiaini, dovevamo bere poco e lentamente; soprattutto ci raccomandarono di non bere durante la loro assenza perché si rischiava di morire. Sul comodino di ciascun naufrago c’era una bottiglia d’acqua, non appena uscirono infermieri e dottori, presi l’acqua e la bevvi tutta. Avevo tanto desiderato con tutte le mie forze bere per cinque lunghi, terribili e allucinanti giorni che non mi interessava morire! Raggiungemmo Messina dopo 8 giorni e scoprimmo che durante il nostro naufragio la corrente ci aveva spostato di 400 miglia. Restammo un mese al “Regina Margherita” di Messina e dopo ci mandarono a casa in convalescenza. Dopo tre mesi rientrai e mi mandarono prima in Grecia e poi a Napoli presso fa batteria contraerea, dove, restai fino alla fine della guerra.
Toccante è ciò che riferisce la figlia di Beniamino, prof.ssa Caterina Veneroso, a margine del racconto del padre:
“Ogni anno, nel mese di marzo, mio padre diventava cupo e triste, e la mattina del 28 marzo ci chiedeva se
ci ricordavamo che giorno fosse. Con gli anni imparammo e ricordammo. In quella data sentiva il bisogno di raccontarci ancora una volta la “sua” storia. Si sedeva, guardava a terra, incrociava le mani e parlava. Parlava con voce tremula e non alzava Io sguardo, per nascondere le lacrime”.